Papa Francesco: “Non abbiate paura”
In un mondo sempre più chiuso su stesso, che si stringe nelle sue paure più profonde, che alimenta giorno dopo giorno la sua insicurezza, c’è un grido che rompe il silenzio delle nostre coscienze, che scuote il nostro animo di cristiani addormentati e uomini di (poca) buona volontà: “Non abbiate paura!”.
Papa Francesco ha visitato venerdì 15 febbraio 2019 la Fraterna Domus di Sacrofano, per presiedere la Messa che ha aperto il meeting dal titolo: “Liberi dalla paura”, organizzato dalla Fondazione Migrantes, dalla Caritas Italiana e dal Centro Astalli.
L’invito del Santo Padre a non aver paura, che è stato il centro dell’omelia, richiamano alla mente quelle stesse parole pronunciate da San Giovanni Paolo II nel suo primo giorno di Pontificato, il 22 ottobre 1978, un grido che scosse la Chiesa e il mondo:
Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!
Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!
Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna.
Oggi, dunque, ancora una volta Papa Francesco ripete: “Non abbiate paura!”, le parole che Gesù rivolge ai suoi discepoli che non lo riconobbero. «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,27). “È davvero Lui – dice il Santo Padre – anche se i nostri occhi fanno fatica a riconoscerLo: coi vestiti rotti, con i piedi sporchi, col volto deformato, il corpo piagato, incapace di parlare la nostra lingua… Anche noi, come Pietro, potremmo essere tentati di mettere Gesù alla prova e di chiedergli un segno. E magari, dopo qualche passo titubante verso di Lui, rimanere nuovamente vittime delle nostre paure. Ma il Signore non ci abbandona! Anche se siamo uomini e donne “di poca fede”, Cristo continua a tendere la sua mano per salvarci e permettere l’incontro con Lui, un incontro che ci salva e ci restituisce la gioia di essere suoi discepoli.
Rinunciare a un incontro non è umano
“Non è facile entrare nella cultura altrui, mettersi nei panni di persone così diverse da noi, comprenderne i pensieri e le esperienze – aggiunge il Papa – E così, spesso, rinunciamo all’incontro con l’altro e alziamo barriere per difenderci, ma rinunciare a un incontro non è umano”.
“L’incontro con l’altro, poi, – ha ricordato il Santo Padre – è anche incontro con Cristo. Ce l’ha detto Lui stesso. È Lui che bussa alla nostra porta affamato, assetato, forestiero, nudo, malato, carcerato, chiedendo di essere incontrato e assistito. E se avessimo ancora qualche dubbio, ecco la sua parola chiara: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40)”.
L’esame finale
Noi cristiani siamo fortunati, non c’è che dire, anche se non sappiamo quando verrà il giorno del giudizio, conosciamo la cosa più importante: le domande d’esame, il protocollo sul quale saremo giudicati. E’ quello che troviamo nel Capitolo 25 del Vangelo di Matteo, lì – come ha ricordato Papa Francesco nell’Udienza generale del 6 agosto 2014 – ci sono “le domande che ci faranno il giorno del giudizio. Non avremo titoli, crediti o privilegi da accampare. Il Signore ci riconoscerà se a nostra volta lo avremo riconosciuto nel povero, nell’affamato, in chi è indigente ed emarginato, in chi è sofferente e solo… È questo uno dei criteri fondamentali di verifica della nostra vita cristiana, sul quale Gesù ci invita a misurarci ogni giorno”.
Il mio prossimo
Duemila anni dopo siamo ancora qui a chiedere: chi è il mio prossimo? E Lui continua a risponderci:
“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31 Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. 32 Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. 33 Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. 34 Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. 36 Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. 37 Quegli rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Và e anche tu fa lo stesso”. (Lc 10, 30-37)
Chi è mio prossimo, dunque? I miei parenti? I miei connazionali? Quelli che abitano nei confini della mia regione autonoma? Quelli della mia religione? Siamo ancora qui a chiedere una regola chiara che ci permetta di classificare gli altri in “prossimo” e “non-prossimo”.
Ma Gesù ribalta la prospettiva: “Non stare a classificare gli altri per vedere chi è prossimo e chi no – ricorda Papa Francesco nell’Udienza generale del 27 aprile 2016 – Tu puoi diventare prossimo di chiunque incontri nel bisogno, e lo sarai se nel tuo cuore hai compassione, cioè se hai quella capacità di patire con l’altro”.
“La parabola del Buon Samaritano – aggiunge il Papa – è uno stupendo regalo per tutti noi, e anche un impegno! A ciascuno di noi Gesù ripete ciò che disse al dottore della Legge: «Va’ e anche tu fa’ così» (v. 37). Siamo tutti chiamati a percorrere lo stesso cammino del buon samaritano, che è figura di Cristo: Gesù si è chinato su di noi, si è fatto nostro servo, e così ci ha salvati, perché anche noi possiamo amarci come Lui ci ha amato, allo stesso modo”.
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