Google, l’algoritmo di YouTube sotto accusa per gli attentati di Parigi del 2015
I genitori di Nohemi Gonzalez, studentessa universitaria americana di 23 anni, tra le 131 persone uccise dai terroristi dell’Isis a Parigi il 13 novembre 2015, hanno querelato Google. La questione chiama in causa l’algoritmo del social. La famiglia Gonzalez afferma che YouTube “non si limita a un ruolo passivo nel consentire agli utenti di cercare cosa vedere, ma il suo algoritmo consiglia video in base al profilo di ciascun utente”, aggiungendo che “coloro che hanno guardato video di propaganda islamista hanno anche ricevuto più contenuti di questo tipo, facilitando la loro radicalizzazione”.
A tal proposito, la sociologa Zeynep Tufekci, professoressa alla Columbia, nel 2018 in un editoriale sul New York Times aveva avvertito che YouTube “poteva essere uno dei più potenti strumenti di radicalizzazione del XXI secolo”
“Durante la campagna elettorale presidenziale del 2016 – scrive la professoressa Tufekci – ho guardato una serie di video delle manifestazioni di Donald Trump su YouTube perché stavo scrivendo un articolo sul suo appello alla sua base elettorale. YouTube ha iniziato a consigliarmi altri video di suprematisti bianchi e negazionisti dell’Olocausto. Ho fatto altre prove, anche aprendo altri account e Youtube mi suggeriva sempre argomenti più estremi sullo stesso filone di ricerca: i video sul vegetarianismo hanno portato a video sul veganismo, i video sul jogging hanno portato a video sulle ultramaratone”. Sembrava quasi – continua Zeynep Tufekci – che l’algoritmo di YouTube promuovesse, consigliasse e diffondesse video come in un costante aumento della posta in gioco”.
Questo perché? La professoressa Tufekci se lo è spiegato partendo da una semplice considerazione: Google è un broker pubblicitario che vende la nostra attenzione alle aziende e più a lungo le persone rimangono su YouTube, più soldi guadagna Google. E cosa tiene le persone incollate a YouTube? Sembra che le persone siano attratte da contenuti sempre più estremi.
Quanto a Google, la società ribatte che l’unico collegamento tra gli attacchi di Parigi e YouTube è che uno degli aggressori è stato un utente attivo della piattaforma e una volta è apparso in un video di propaganda dell’Isis. “Questa Corte non dovrebbe prendere alla leggera una lettura della sezione 230 che minaccia le decisioni organizzative di base della moderna rete Internet” dice Google.
Ma cos’è questa famigerata Sezione 230 del Communications Decency Act del 1996?
La Sezione 230 offre una tutela ai siti web che ospitano contenuti di terzi online e protegge queste piattaforme da cause civili derivanti da contenuti illegali pubblicati dagli utenti. In pratica siamo davanti a un “trasferimento del rischio”: il rischio legale è a carico delle persone che pubblicano i contenuti e non della piattaforma che li ospita.
Questo provvedimento ha plasmato in modo fondamentale lo sviluppo di internet: in sostanza, ha concesso alle piattaforme online (social e non solo) di diventare ciò che sono oggi. Il problema è che la Sezione 230 è stata emanata molto prima che le aziende tecnologiche iniziassero a utilizzare i sofisticati algoritmi che regolano la fruizione stessa dei contenuti caricati dagli utenti.
La famiglia Gonzalez punta proprio su questo e sostiene che Google possa essere citata in giudizio perché la questione riguarda la promozione dei contenuti.
La Sezione 230 scarica ogni responsabilità ma tutti i contenuti caricati concorrono alla crescita del social e sono fonte di guadagno grazie ad un accordo di spartizione economica – sbilanciatissima a favore del colosso web – per ogni entrata derivante dalle visualizzazioni dei contenuti.
Ci iscriviamo accettando un regolamento, a questo non dovrebbe a sua volta corrispondere una accettazione da parte dei social anche delle responsabilità sui contenuti caricati sui propri server?
Avete provato a scaricare i contenuti caricati sul vostro canale nella stessa qualità con la quale li avete uploadati? Non è possibile se non si sottoscrive un abbonamento. Dunque ospito i tuoi video sui miei server, se li rivuoi indietro te li do ad una qualità inferiore altrimenti devi sottoscrivere un abbonamento, se vuoi monetizzare ti lascio le briciole, se utilizzi materiale sotto copyright non ti vieto di metterlo online ma ti ci piazzo sopra la pubblicità. Dunque (per ora) non si paga per il servizio di hosting, ma sulla base di quella enorme massa di contenuti che quotidianamente vengono caricati dagli utenti e attraverso un algoritmo che massimizza le visualizzazioni, quei contenuti sono dollari sonanti.
La palla ora è in mano alla Corte suprema che potrebbe con una sua decisione a favore dei genitori di Nohemi Gonzalez assestare un duro colpo ai giganti del Web. Staremo a vedere, intanto preparate gli hashtag.
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